di Nazanin Armanian (*)

 

La politica estera di Tayyip Erdogan può servire a diagnosticare i profondi cambiamenti che, dpo la fine della Guerra Fredda, stanno occorrendo nelle relazioni internazionali e nell’equilibrio delle forze nel mondo.

Nonostante la Turchia venga chiamata “l’unico Stato musulmano dell’Alleanza Atlantica”, è ovvio il poco (o nullo) peso che la religione ha nelle tattiche e nelle strategie del paese. La bussola del va e vieni di questo grande paese non è stata altro che gli interessi economico-politici di un capitalismo espansionista gestito dalla borghesia conservatrice religiosa o laica, anche se molto dinamica.

 

Nelle ultime settimane, giocando il ruolo dei grandi sultani del passato, un Erdogan cosciente del luogo che occupa il suo paese sul mappamondo ha ricevuto nel suo megapalazzo faraonico lo statunitense Joe Biden, dirigente dell’ancora principale superpotenza globale; il papa Francesco, capo del ridotto e potente Stato Vaticano; e Vladimir Putin, presidente di una Russia con la viva memoria della superpotenza sovietica, che osa parlare a tu pe tu con la NATO, la temibile alleanza militare planetaria.

Dalla sua privilegiata posizione, ubicata tra i Balcani, il Caucaso, il Medio Oriente e il Golfo Persico; tra arabi, persiani, ebrei e kurdi, e tra i cosiddetti “mondo musulmano e mondo cristiano”, la Turchia sembra divertirsi a giocare tutte queste carte, con scarsi risultati e gravi e tragici errori.

Alleato degli USA? Si, ma non tanto

All’inizio del suo mandato un Barak Obama che confondeva le teocrazie islamiche (che sono quattro) con i governanti di fede islamica che mettono in atto leggi mondane (che sono la maggioranza) cominciò a segnalare la Turchia come il modello ideale di un Islam democrativo versus Arabia Saudita o Iran. Il suo appoggio ai Fratelli Musulmani, che con le loro giacche e cravatte truccano l’oscurantismo religioso (soprattutto nella sua dimensione misogina) con il neoliberismo moderno, affondava le sue radici in questa incomprensibile confusione, tra altre superficialità che commettono anche le forze progressiste dell’Occidente.

Ma i chiodi nella bara delle buone relazioni Ankara-Washington cominciarono a essere martellati quando i turchi si opposero alle sanzioni contro l’Iran – loro grande socio commercale – e all’appoggio incondizionato di Washington a Israele – sia nell’incidente della flottiglia pro Palestina che nei continui attacchi militari di Netanyahu a Gaza. Il breve tempo di durata della luna di miele tra i due governi, il poco che si tardò a far abortire le aspirazioni democratiche di quelli che lottarono per una democrazia politica ed economica nelle “Primavere Arabe”, finì in un aneddoto: i Fratelli Musulmani (FM) persero l’opportunità di far parte del potere nei nuovi regimi.

L’unica speranza che ha ancora Erdogan è la Siria. Chissà che adesso non voglia installare a Damasco i suoi correligionari dei FM; gli piacerebbe vedere la caduta del suo ex amico Bashar Al Assad per non aver ascoltato i suoi consigli di buon governo. Per questo è ricorso a tutti i mezzi salvo l’invio di truppe. Ha persino appoggiato lo Stato islamico, che chiama “l’esercito dei terrorizzati” e non gruppo terrorista. Si tratta di una semplice questione psicologica, del suo orgoglio personale e non gli è importato partecipare alla carneficina scatenata contro il popolo siriano.

 

Smettere di ballare alla musica della NATO

I generali americani stanno studiando una zona di ammorbidimento terrestre sulla frontiera turco-siriana, mentre il presidente turco ne esigeva una di esclusione area, ignorando il sistema di difesa aerea di Assad, appoggiato dalla tecnologia e dalla base militare russa nel Mar Mediterraneo.

Può essere che Obama pensasse che Erdogan stesso incaricasse il potente esercito turco del compito di farla finita con Assad e di risolvere così il conflitto. Il leader turco può morire nel tentativo, ma non è un suicida: non potrà né intervenire direttamente nel massacrio di decine di migliaia di civili, né opporsi all’Iran e alla Russia.

Così la Casa Bianca ha inventato una nuova soluzione: regionalizzare la guerra creando un nuovo esercito di mercenari locali, addestrati in Arabia Saudita e diretti dal Pentagono, al fine di rioccupare questa strategica regione, minaciando l’Iran mentre pianifica lo smantellamento della Federazione Russa – o, almeno, di forzare il presidente Putin a liberalizzare la sua economia, indebolendo il capitalismo di Stato che gli ha permesso di mitigare il disastro economico e sociale lasciato dietro di sé da coloro che, in tutta fretta, smantellarono l’URSS.

 

Anche così la Turchia sembra optare per una relazione orizzontale con gli USA e per non comportarsi come un suo satellite. Così autorizza l’installazione dei sistemi radar della NATO che coprono la Russia sul suo territorio, senza cessare di ampliare i legami con Mosca e Pechino e di patteggiare l’entrata nella centroasiatica Organizzazione di Cooperazione di Shangai. Di più, compra sistemi di difesa anti-missili FD-2000 dalla Cina per un valore di 3.400 milioni di dollari (il che permette ai militari cinesi, oltretutto, di entrare nel sistema militare di un paese della NATO) e entra a far parte dell’iniziativa cinese della nuova Via della Seta (che ingloba un’ampia rete di treni ad alta velocità e di autostrade e una rotta marittima che connetterà quel gigante con l’Europa e nel cui tracciato avrà ramificazioni anche per l’Iran, se gli attuali conflitti nella zona permetterano di portare a termina il progetto).

Gli USA mancano, con tutta evidenza, dell’influenza che avevano nell’era della Guerra Fredda per portare a termine i loro piani. E neanche la Turchia si è resa conto del fallimento totale delle sue politiche nella regione, che possono anche minacciare la sua stabilità interna.

 

L’offensiva di Putin

 

Una settimana prima del nuovo attentato dei Muyahidin ceceni – che godono dell’appoggio di Arabia Saudita e Occidente – il presidente russo ha sorpreso il mondo, compresi i sui concittadini, con due gesti: annunciare la sospensione del progetto del gasdotto South Stream e, invece, realizzarlo in Turchia.

Questo gasdotto, la cui costruzione è iniziata nel 2012 in Russia, avrebbe costeggiato l’Ucraina trasportando il gas dal Mar Nero e dalla Bulgaria fino a raggiungere il sud d’Europa.

Con un costo stimato di 32.000 milioni di dollari, l’impresa russa Gazprom era proprietaria del 50% del progetto, il resto si divideva tra l’italiana ENI, la francese EDF e la tedesca Wintershall. South Stream è stato sabotato, come il progetto Nabucco, secondo Mosca, per le pressioni degli USA sull’Europa nel quadro dell’isolamento energetico della Russia, anche se il motivo ufficiale che ha fornito la Commissione Europea è stato che l’impianto non rispetta la legge che impedisce che compagnie straniere siano proprietarie di gasdotti in terre comunitarie.

 

Ci possono essere stati altri motivi: il piano USA di essere il principale fornitore di gas all’Europa, il timore della UE  che i vecchi soci di Mosca dello spazio socialista ritornino al Kremlino, che il Parlamento ungherese, sfidando Bruxelles, approvi la costruzioni di un ramo di South Stream – nonostante la scarsa incidenza sulla sua economia.

Lo si può anche dovere al fatto che il subappalto dava priorità a compagnie russe e bulgare, lasciando gli occidentali al margine; al fatto che la Russia stessa avesse abbandonato il costoso progetto a causa della mancanza di fondi a causa del dumping del prezzo del petrolio (che può scendere fino a 45 dollari al barile) e per la caduta del valore del rublo e anche che l’annuncio sia stato un escamotage per provocare una reazione positiva di Bruxelles nel riconsiderare il suo verdetto perchè tanti milioni di euro vadano alla UE invece che alla Turchia.

 

 

 

Sia come sia, l’offerta di Putin a Erdogan è molto succulenta: uno sconto del 65% del prezzo del gas che le vende (i turchi chiedono un 15%), il potenziamento del gasdotto turco di BOTAS e il Blue Stream che unisce i due paesi, l’ampliamento della sua rete di condotti e l’aumento della fornitura di gas; la costruzione della  prima centrale nucleare della Turchia per un valore di 20.000 milioni di dolalri; il potenziamento del potere spaziale della Turchia con il lancio di Turksat-4B – un secondo satellite di telecomunicazioni nel 2015 che seguirà il Turksat 4-A lanciato da un missile russo.

Questo possibile cambiamento del tracciato, oltretutto, non danneggerà la fornitura del gas all’Europa – che attualmente fluisce attraverso i gasdotti Nord Stream e Yamal che sarebbe realizato attraverso la Turchia e la Grecia.

 

Putin conosce le fluttuazioni mentali di Erdogan, che ancora non ha detto “si, lo voglio” alla sua proposta. Forse perchè così offre un margine agli USA perchè lo soddisfi nel caso della Siria, o forse spera di ricevere un’offerta migliore da parte dei sauditi e di quelli del Qatar in cambio del girare le spalle a Mosca.

Ma, nel caso firmi questo accordo, la Turchia, oltre a spingere la propria economia, diventerà la cintura economica dell’Eurasia, inviando il gas all’Europa e aumentando il suo peso nell’arena internazionale.

La Russia, dal canto suo, cambierebbe la sua dipendenza – dall’Ucraina alla Turchia – e forse potrebbe influire sulla politica estera del sou socio turco.

 

In questa battaglia di sanzioni contro la Russia, oltre a paesi come la Turchia, guadagna anche la produzioe nazionale russa, così come i nuovi fornitori stranieri di diversi prodotti come Marocco e Israele, che le inviano frutta e verdura sostituendo Spagna e Grecia.

Perde Gazprom, le imprese investitrici europee e anche gli Stati che ricevevano entrate per il passaggio sul loro suolo del gas russo.

 

Movimenti sulla scacchiera che fanno a pezzi migliaia di vite a beneficio di quelli che, nei loro uffici, muovono le pedine.

 

(*) Giornalista iraniano-spagnola.

da: publico.es; 8.12.2014

 

(traduzione di Daniela Trollio

Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)